domenica 28 marzo 2010

La Francia e la considerazione del fumetto



Questo video è la presentazione di un numero speciale di una rivista letteraria francese che si chiama Books. E' interamente dedicato al fumetto, alle nuove espressioni di questa forma d'arte. Sono presentati i recenti lavori di diversi autori come Joe Sacco, Munoz, David B. e i nostri Gipi ed Igort. Non è un fatto di cui sorprendersi: la considerazione che il fumetto ha in Francia e la dignità che gli viene riconosciuta sono ormai scontate. Così non è invece in Italia, dove molti ancora lo trattano, anche inconsciamente, alla stregua di arte di serie B.
Per convincersene basta leggere questo articolo della Stampa riguardante la celebrazione dei 60 anni di Peanuts, avvenuta all'università di Bologna alla presenza della vedova di Schulz. All'incontro ha partecipato anche Umberto Eco il cui intervento, ricorda il giornalista, è servito a riscattare "una volta di più il fumetto dal rango di arte di serie B". E questo perché il semiologo definisce i personaggi di Schulz  come dei classici intramontabili a differenza de Il giovane Holden di Salinger che viene considerato un po' datato. Secondo me è proprio il giornalista che inconsciamente pensa che i fumetti siano letture di seconda categoria, e attribuisce al discorso di Eco un merito totalmente estraneo alle sue intenzioni, ovvero quello di una rivincita delle nuvole parlanti sulla parola scritta.

lunedì 22 marzo 2010

Topolino, Gottfredson e la cantina di mia zia


Lunedì ho acquistato in edicola il primo numero della collana "Gli anni d'oro di Topolino", un'opera che si propone di raccogliere in forma integrale e cronologica le strisce di Floyd Gottfredson, uno dei più grandi fumettisti di tutti i tempi. Colui cui Walt Disney diede l'incarico di disegnare alcune storie per un periodo temporaneo e che poi invece finì per diventare l'autore principe di Mickey Mouse in oltre 45 anni. Il libro è ben curato, le strisce, che originariamente furono pubblicate sui quotidiani americani, sono state colorate (perché, visto che le originali, a parte quelle domenicali, erano in bianco e nero?) e ritradotte per l'occasione. L'opera si svilupperà su 38 volumi che costituiranno nel loro insieme una collana unica al mondo: mai prima d'ora, infatti, erano state raccolte tutte insieme le strisce del grande autore.



Ho letto subito la prima storia "Topolino e il mistero dell’Uomo Nuvola" pubblicata originariamente a cavallo fra il '36 e il '37 e, pur non essendo un fan di Topolino, l'ho trovata interessante. Il protagonista è il dottor Enigm (Einmug nell'originale) che ha scoperto il modo di sfruttare l'energia degli atomi. Vive in un'isola fra le nuvole perché si è dovuto rifugiare da un agente (Pietro Gambadilegno) di una potenza straniera che voleva impadronirsi del segreto. Il fumetto risuona dell'umore di quegli anni, quando sui giornali americani si scrivevano articoli sulle nuove scoperte scientifiche relative allo sfruttamento dell'energia atomica. Il dottor Enigm è d'altra parte ispirato direttamente ad Albert Einstein: nell'originale gli si fa parlare un inglese con inflessioni tedesche.



Il motivo per cui mi è piaciuta la storia è rappresentato nella tavola qui sopra. Gottfredson e lo sceneggiatore Ted Osborne hanno dimostrato molto più buon senso di quanto fecero più tardi i fisici e i politici coinvolti nell'applicazione degli studi sull'atomo. Una volta fatto fuggire Gambadilegno, il dottor Enigm si rifiuta di consegnare la scoperta a Topolino che la richiedeva per poi consegnarla al governo americano, sicuro che ne avrebbe fatto un uso pacifico e sicuro. Il dottore invece non si fida, pensa che "...il mondo non è ancora pronto per la mia invenzione! Porterebbe solo dolore... guerre... e morte!". Si può tranquillamente dire che questa tavola si è rivelata tristemente profetica di ciò che avvenne solo pochi anni più tardi....



Leggere questa storia ha avuto un altro effetto su di me: mi ha fatto ripensare ai primi fumetti che lessi nella mia vita. Ancora prima dei Bonelli (che non ho mai lasciato) fu Topolino il primo giornalino che mi capitò tra le mani. Non è sicuramente originale quanto sto dicendo, probabilmente è un'esperienza condivisa con moltissimi altri ragazzi e ragazze italiani (e non). Tuttavia di particolare c'è che i Topolini non mi venivano di solito comprati dai miei, ma li andavo a leggere nella cantina di mia zia. Le mie tre cugine infatti, di qualche anno più vecchie di me, leggevano regolarmente (o almeno lo hanno fatto per un periodo) i Topolino settimanali. Dopo la lettura, i miei zii li riponevano in un mobile della loro spaziosa cantina. Per me quella credenza rappresentava uno scrigno dei desideri: ricordo che passavo ore a divorarmi quei grossi giornalini pieni di storie affascinanti (almeno così mi sembravano allora). Dico grossi perché risalivano ai primi anni 70 (e probabilmente anche agli ultimi anni 60) ed erano decisamente più spessi e ricchi di pagine di quelli che si trovavano in edicola quando io ero bambino.



Mia zia fu poi provvidenziale in un altro episodio legato a Topolino. Ricordo infatti che i personaggi di Walt Disney mi piacevano così tanto che volevo assolutamente abbonarmi al giornalino settiminale. Mia madre non era però d'accordo, ma io, infischiandomi del suo divieto, compilai comunque il coupon di abbonamento e lo imbucai nella cassetta della posta del mio paese. Preso poche ore dopo da un rimorso di coscienza, confessai tutto a mia madre che, dopo avermi sgridato, chiese a sua sorella, che lavorava propio in posta, di intercettare la mia "letterina". L'abbonamento fu così sventato: probabilmente meglio così, dico ora, ma allora ci restai assai male....

Più tardi abbandonai la lettura di Topolino e soci, per concedermi a quella, più matura, degli albi Bonelli. E' singolare comunque che, per entrambe le famiglie di fumetti (i Topolino e i Bonelli) sia debitore a due diverse famiglie di parenti: le tre cugine materne per i primi, e i tre cugini paterni per i secondi (come ho già raccontato in un post precedente). Certe volte penso che se i miei genitori fossero stati figli unici, adesso magari non sarei un appassionato di fumetti.. Mah! Chi può dirlo?

domenica 21 marzo 2010

L'Audace Bonelli (II)

Continua il mio personale viaggio nell'universo Bonelli, cogliendo l'occasione dalla mostra dedicata alla Sergio Bonelli Editore che è stata inaugurata venerdì 19 marzo al Palazzo delle Arti (Pan) di Napoli. La mostra si intitola "L'Audace Bonelli" e ripercorre con più di 200 tavole originali la storia della mitica casa editrice milanese. Come ho scritto nel precedente post, è grazie ai suoi personaggi se ho dedicato un blog ai fumetti.



Ricordo che all'età di 13 anni, mentre stavo leggendo un albo di Mister No, fui incuriosito dalla quarta di copertina, dove comparve la pubblicità di una nuova serie chiamata "Storia del West". Decisi di comprarne la prima uscita e fu il mio primo acquisto in edicola di un giornalino Bonelli: ancor oggi ricordo la gioia di avere fra le mani il numero 1. Ero entusiasta dell'idea che in una serie limitata in 75 numeri venisse raccontata tutta l'epopea della storia del west, ovvero che vi potessi rirovare tutti i luoghi e personaggi per me mitologici che avevo visto e rivisto nei film western.



La serie parte da un ragazzo, Brett MacDonald, che, appena sbarcato nel 1804 da una nave proveniente dall'Europa, si avventura subito nella grande spedizione esplorativa di Lewis e Clark che attraversò l'enorme territorio a ovest della costa atlantica fino a toccare il Pacifico. Mi colpirono subito i dettagli geografici e i bei paesaggi disegnati da Renzo Calegari e seguii la serie scritta da Gino D'Antonio fno alla sua conclusione ambientata nel 1890 con il massacro di Wounded Knee e con la grande gara per la conquista della terra in Oklahoma. Fu una lettura affascinante scoprire come la storia "privata" della famiglia MacDonald/Adams si intrecciasse con quella "pubblica" del Far West, incontrando personaggi come Kit Carsn, Buffalo Bill, Wyatt Earp, Toro Seduto, Geronimo, Cochise, Cavallo Pazzo e tanti altri.



Sergio Bonelli dichiarò che "Storia del West" è la serie di cui va più orgoglioso e a cui deve di più a livello personale. Tuttora per me rimane uno dei capolavori della casa editrice di via Buonarroti, una prova del fatto, se mai qualcuno avesse dei dubbi, che il fumetto seriale può raggiungere alti livelli di qualità, nelle storie e nei disegni. Gino D'Antonio, l'autore, e il ristretto staff di disegnatori (Calegari, Trevisan, Polese e Tarquinio) poterono lavorare con maggior tranquillità, senza l'assillo dell'uscita mensile, in quanto la serie originale venne pubblicata a partire dal 1967 nella Collana Rodeo, che era sì una pubblicazione mensile ma che non conteneva ogni mese una nuova avventura della famiglia MacDonald/Adams.



La serie "rossa" che io acquistai era quindi una bellissima ristampa che mi affascinava per l'intreccio di realtà storica e di linguaggio epico. Forse questa per me è la maggior qualità di Gino D'Antonio, visibile soprattutto nei ritratti fieri dei protagonisti indiani che soccombono uno a uno di fronte all'avanzata distruttrice dei "visi pallidi". Sono questi gli episodi che mi piacciono di più: storie molto tristi, come la battaglia di Little Big Horn, una vittoria sì per Toro Seduto e Cavallo Pazzo ma il preludio della loro fine, il massacro del Sand Creek, la resistenza vana ma orgogliosa di tutti gli altri popoli nativi guidati da capi eroici come Cochise, Capo Giuseppe o Tecumseh. Questo per me è il motivo ricorrente della serie che la rende tuttora attualissima: la conquista del west è la storia di una sconfitta. La sconfitta dell'idea rappresentata dalla convivenza di popoli e culture diverse che i protagonisti della famiglia MacDonald/Adams cercano sempre di perseguire, nonostante la realtà dei fatti li smentica di continuo. E' una sfida continua alle forze immani della Storia.



Da questo punto di vista "Storia del West" è la storia di tutti quegli uomini del West che hanno difeso la propria dignità di esseri umani, anche se alla fine hanno dovuto soccombere. Non è poco come messaggio per un piccolo giornalino...


domenica 14 marzo 2010

L'Audace Bonelli (I)


E' il nome di una grande mostra che si terrà al Palazzo delle Arti di Napoli dal 19 marzo al 9 maggio 2010 dedicata alla più importante casa editrice italiana di fumetti: la Sergio Bonelli Editore. Son trascorsi 70 anni da quando Gianluigi Bonelli rilevò la casa editrice Audace che, divenendo prima Edizioni Araldo, poi Cepim e Daim Press assunse infine la denominazione attuale. Prima l'ex moglie Tea e dagli anni '60 il figlio Sergio si succedettero alla sua guida. Oggi viene giustamente celebrata con oltre 200 tavole originali dei tanti disegnatori che hanno lavorato alla casa editrice milanese. Peccato che la mostra sia così lontana, a Napoli, mi piacerebbe molto visitarla, visto che è proprio grazie a Sergio Bonelli e ai suoi fumetti che adesso sto scrivendo su questo blog....

Questo post vuole essere il mio primo personale omaggio alla casa editrice di via Buonarroti.



E' da quando sono bambino che leggo gli albi Bonelli, allora li chiamavo giornalini. La loro scoperta fu molto particolare e casuale, la devo tutta a mio nonno. Fu lui infatti a farmi avere i primi Tex e Zagor, ma non perché me li regalò comprandoli in edicola, bensì perché li usava come imballo. Ebbene sì, a Natale uno dei pacchi che aspettavo più spasmodicamente era quello che mio nonno mi spediva dalla Calabria. Lui trascorreva i mesi invernali insieme ai miei cuginetti del sud e, ogni Natale, spediva su in Friuli le delizie di quella terra: arance, formaggi, caffè, torroni e, da uomo ordinato e preciso quale era, separava ogni scompartimento dall'altro attraverso... i giornalini Bonelli, che i miei cuginetti avevano già letto ed eliminato dalle loro camerette. Non ho mai saputo se quell'imballo così particolare scelto da mio nonno nascondesse la sua intenzione di propormi quelle letture, o fosse solo un caso. Mi piace pensare che sia vera la prima ipotesi. Sta di fatto che questo fu il modo in cui mi trovai fra le mani, durante gli ultimi anni delle elementari, i primi Tex, Zagor, Il piccolo ranger, Il comandante Mark e Mister No della mia vita.


Ricordo ancora adesso con quanto entusiasmo mi tuffassi nella lettura di quegli albi pieni di avventura e come li conservassi con cura quasi fossero antichi cimeli. Fin da piccolo mio padre mi aveva trasmesso il suo amore per il western facendomi vedere una miriade di film con cowboys e indiani come protagonisti. L'immaginario della frontiera era già entrato nel mio inconscio e fu facile per Tex e Il piccolo ranger trovarvi un loro spazio.

Tex e i suoi 3 pards (l'inseparabile Kit Carson, il figlio Kit e il navajo Tiger Jack), mi conquistarono subito. Rividi in lui e le sue avventure ciò che avevo visto nei film: gli inseguimenti a cavallo nelle aspre gole dei canyon o le scazzottate nei fumosi saloon, le giacche blu contro i fieri pellerossa. Penso però che fu un tratto preciso di Tex che mi colpì: la sua chiara e netta difesa del più debole, a prescindere dal colore della pelle, contro il sopruso del prepotente, che, a seconda dei casi, veniva "massaggiato" con qualche sganassone o riempito di piombo caldo. Questa evidente distinzione tra Bene da una parte e Male dall'altra era probabilmente poco realistica, ma penso che diede il suo piccolo contributo nella formazione della semplice etica del bambino che ero. 



Del Piccolo Ranger mi piaceva il fatto che il protagonista era un ragazzo e che appartenesse al corpo dei ranger che, ai miei occhi, assumevano un'aria epica attraverso quelle splendenti casacche rosse. Probabilmente era alto il grado di identificazione nel giovane eroe e questo giocava un ruolo importante nell'attrazione che Kit Teller esercitava su di me.


Zagor Tenay, lo spirito con la scure, fu una bella scoperta. Mi colpirono del personaggio vari aspetti: l'ambientazione era sì western ma la foresta di Darkwood, dove viveva, così tetra con le sue paludi e sabbie mobili, gli attribuiva un carattere più fantastico. Poi la sua casacca rossa , così atipica per un cow boy, l'arma sigolare che brandiva, il tomahawk e il suo grido di battaglia molto tarzanesco ("ayaak") gli conferivano un fascino particolare. C'era poi un'ironia che smorzava l'eroicità del personaggio data dalla presenza del compagno d'avventure Cico, un messicano cicciottello tanto fifone quanto coraggioso era il suo pard.


Il Comandante Mark era il classico eroe senza macchia e senza paura: lottava per la libertà e l'indipendenza dei ribelli americani contro il dominio tirannico degli odiati inglesi. Almeno questo era il messaggio che recepivo. Anche qui l'ambientazione della frontiera, seppur diversa da quella classica di Tex, esercitava su di me un grande fascino. Le vicende si svolgevano nella regione dell'Ontario, dove Mark, affiancato dai due pards, il barbuto Mister Bluff e il saggio indiano Gufo Triste, guidava i suoi valorosi Lupi dell'Ontario in avventurosi scontri con le giubbe rosse.

Mister No invece era immerso in uno scenario del tutto nuovo: la verde e intricatissima Amazzonia che gravitava attorno alla città di Manaus degli anni 50. Mister No è un personaggio completamente diverso dai precedenti: si può dire che fu il primo antieroe entrato in casa Bonelli, per mano del suo stesso editore Sergio che fu anche il creatore del personaggio e delle storie. Penso che di lui mi piacque il carattere anticonformista, anche se sto dando ora il nome a qualcosa che allora sicuramente non conoscevo. Diciamo che mi piaceva il suo dire di no, il suo mandare al diavolo i guai con quell'aria un po' scanzonata, il suo spirito vagabondo che lo portava in giro per i cieli del Sud America sulle ali del suo piccolo piper. Anche lui combatteva contro i prepotenti in difesa dei deboli: in questo aspetto eroico c'era molto di Tex. In più però c'era, secondo me, anche un messaggio ecologista, visto che spesso fra i cattivi c'era chi voleva distruggere parti della verde Amazzonia e i suoi abitanti per aprire la strada ai più biechi aspetti del progresso sfruttatore delle risorse naturali.

Questi furono i primi personaggi Bonelli che conobbi. Tex non mi ha ancora lasciato e molti altri li scoprii in seguito. Ma questo è già materia di un prossimo post.


sabato 6 marzo 2010

Quella notte alla Diaz

Ricordo bene quel pomeriggio in cui appresi, leggendo il Televideo, della morte di Carlo Giuliani a Genova. Rimasi attonito, senza parole. Non credevo possibile fosse avvenuta una cosa simile in Italia. Provai paura. E con sgomento e rabbia seguii le notizie e le immagini delle manifestazioni del G8 che si diffusero da Genova nei giorni successivi. Il sogno di un fiume di persone giunte nella città ligure per chiedere, attraverso un linguaggio pacifico colorato e gioioso, un mondo diverso e più giusto si trasformò in un terribile incubo. L'incubo ebbe luogo lungo dapprima lungo le vie di Genova e poi nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto.


Ho rivissuto quelle brutte emozioni che provai quei giorni, leggendo il racconto a fumetti "Quella notte alla Diaz" di Christian Mirra, pubblicato da Guanda. E' una testimonianza agghiacciante in prima pesona di quella che secondo Amnesty International è stata "la più grande sospensione dei diritti democratici, in un paese occidentale, dalla fine della II guerra mondiale". L'autore la visse sulla propria pelle, fu uno dei ragazzi aggrediti e selvaggiamente picchiati alla scuola Diaz durante la notte cilena fra sabato 21 luglio e domenica. La parola giusta sarebbe torturati, ma il nostro codice penale non prevede il reato di tortura. Il racconto ha il pregio, secondo me, di restituire per quanto possibile l'orrore cui fu sottoposto l'autore e molti altri e altre come lui. Lo fa attraverso delle tavole che sono un pugno nello stomaco, ma che servono a far capire l'abisso di dolore e paura in cui finirono molti manifestanti innocenti.


Nello stesso tempo il racconto è anche un alto esempio di giornalismo grafico, perché è una testimonianza personale ma precisa dei fatti della Diaz e di ciò che successe all'autore in ospedale nei giorni seguenti. Ma non solo: Mirra ci ricorda i tentativi della polizia di negare i pestaggi, l'emergere della verità poco a poco e il faticoso iter processuale che lo vide coinvolto. Fatti raccontati attraverso i suoi pensieri e le sue emozioni.


E' un documento di denuncia civile che vorrei fosse letto da tuti quelli che pensano ancora oggi che a Genova i manifestanti se la sono cercata. Vorrei che lo leggessero quelli che ancora pensano che in Italia la legge è uguale per tutti. Non lo è sicuramente per i responsabili delle forze dell'ordine protagonisti di quei giorni che invece hanno fatto carriera. Tuttavia oggi ho letto una notizia che dà un po' di fiducia: in appello è stata ribaltata la sentenza di primo grado per i reati commessi nella caserma di Bolzaneto. 44 fra rappresentanti delle forze dell'ordine e medici sono stati riconosciuti colpevoli, anche se i reati sono prescritti.
E' solo una coincidenza ma pochi giorni fa ho letto Uomo Faber, l'omaggio in forma di racconto a fumetti che Ivo Milazzo e Fabrizio Calzia hanno dedicato a Fabrizio De André. Il cantautore genovese frequentò proprio la scuola Diaz da ragazzino e a questo sono dedicate alcune belle tavole nelle quali si vede il piccolo De André che, entrando in classe, ha una visione terribile. Immagini di poliziotti che picchiano inermi ragazzi dentro una scuola che si trasformano in sequenze dove giacche blu seminano la morte in un villaggio di pellerossa. Un accostamento fra il G8 di Genova e il massacro di Sand Creek che trova nel cantautore il trait d'union.

martedì 2 marzo 2010

I shot a man in Reno..


..just to watch him die. Sono dei versi tratti da Folsom Prison Blues, una delle più celebri canzoni di Johnny Cash. Se fosse ancora tra noi, lo scorso 26 febbraio avrebbe compiuto 78 anni. Quel giorno è uscito l'ultimo disco della serie American recordings, American VI: Ain’t No Grave, prodotto anch'esso, come i precedenti, da Rick Rubin. The Man in Black lo registrò in condizioni di salute molto precarie, mentre stava ancora piangendo la morte della moglie June Carter: è il suo modo di dire addio al mondo, il suo ultimo saluto.


E' proprio attorno alla canzone Folsom Prison Blues e al famoso concerto che Cash tenne in quella prigione, che è incentrato il bel racconto a fumetti di Reinhard Kleist "Cash - I see a darkness", pubblicato in Italia da BlackVelvet.


E' un tributo del giovane autore tedesco al più grande cantante country di tutti i tempi. Con un tratto un po' sporco ma deciso, Kleist ci illustra la vita movimentata dell'uomo che diventò una leggenda. Ci sono gli inizi difficili e i primi tour on the road per l'America, l'incontro con la moglie June Carter e la dipendenza dalla droga, mostrata in tutto il suo degrado ma di cui non si tace la fonte di ispirazione che comnque rappresentò per Cash. E' quindi un racconto sincero che culmina nel live a Folsom Prison, dopo il quale Cash divenne il più celebre cantante d'America.


Fu proprio grazie a Folsom Prison Blues e al suo testo che Cash divenne così famoso presso i detenuti. Folsom era un carcere di massima sicurezza dove erano rinchiusi i criminali più pericolosi d'America, o per lo meno quelli ritenuti tali. Quei pochi versi furono capaci di instaurare un sentimento di empatia nei loro confronti, e per Cash fu un trionfo.
Si narra anche la storia dell'incontro di Cash con Glen Shirley, un detenuto di Folsom che scrisse la canzone "Greystone Chapel" cantata dallo stesso Cash e inserita nella scaletta appena la sera precedente.


Qui sopra vediamo Cash ringraziare Sherley dopo l'esecuzione della canzone. Fu uno dei momenti più emozionanti della vita di Sherly, come dichiarò egli stesso. Nel fumetto Cash racconta poi a Rubin la triste storia di Sherley che, uscito di prigione, cominciò a collaborare con Cash ma, ottenuto il successo dopo la libertà, non li resse, fu licenziato da Cash, divenne vagabondo e infine si suicidò.
Kleist non nasconde vari dettagli della vita dell'uomo in nero, come il fatto che durante un tour girò armato di pistola, perché minacciato dal Ku Klux Klan in seguito alla pubblicazione di un disco in cui raccontava la storia degli indiani d'America. Fu boicottato anche da tutti i media perché assunse un nativo come consulente per l'album.


Dopo essere diventato un cantante che vendeva più dei Beatles ed Elvis, Cash, sempre più scomodo e inviso alle case discografiche, poco a poco sparì dalle scene, fino all'incontro negli anni 90 con Rubin che lo convinse a portare a termine un'opera grandiosa: i dischi dell'American recordings in cui Rubin fece cantare a Cash cover di brani vecchi e nuovi, di star famose come gli U2 o i Soundgarden e di altre meno note, il country dell'uomo in nero incontrava il mondo.


Anche questo c'è nel fumetto, lo vediamo nella tavola qui sopra: il vecchio e stanco Johnny sollecitato e spronato da Rick, mentre gli propone Hurt, quella che diventerà l'apice del successo di questi dischi.
Io conobbi the Man in Black tardi, appena nel 1993, quando comprai Zooropa, l'album degli U2 che conteneva una traccia, "The Wanderer", cantata da un certo Johnny Cash, una voce bassa, profonda e forte. Mi rimase impressa e diversi anni dopo la riscoprii nella sua anima country acquistando proprio il cd "Johnny Cash at Folsom Prison", nella versione non censurata dei commenti coloriti che Cash si scambiava con i detenuti.


Qui sopra Johnny Cash e June Carter a Folsom Prison
E' davvero un piacere rivivere lo spirito dell'album nel racconto a fumetti di Reinhard Kleist.



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