giovedì 14 giugno 2012

La forza della relazione


Una relazione è uno scambio. Fra due o più persone, due o più gruppi. Cosa ci si scambia? Energia. Poca, tanta, insufficiente, rigenerante: dipende dagli attori in gioco e dalle condizioni al contorno.
Lunedì scorso allo stadio Rocco di Trieste ha avuto luogo una straordinaria relazione. Da una parte c'era il Boss con la E-Street Band, dall'altra 30.000 persone. Il risultato è stato meraviglioso: Springsteen che si carica a seconda di come il pubblico reagisce ai suoi stimoli e viceversa. Reazione positiva, risonanza perfetta. Tre ore e venti minuti di spettacolo in cui i protagonisti sono stati tutti: noi del pubblico e i musicisti sullo stage. Le luci si accendono sul prato e i tecnici si preparano per smontare il palco, ma il Boss continua ancora per un'ora e mezza: i tecnici tornano a sedere. Io e i miei amici ci guardiamo stupiti domandandoci da dove il Boss tiri fuori le forze per continuare, senza risparmiarsi, con la gioia dipinta sul volto, saltando, ballando e correndo. La risposta mi è venuta dopo, a casa. L'energia gliela davamo noi. E a noi per ballare e cantare per tutto quel tempo chi ce l'ha data? Lui. Cos'è che mi ha fatto rimanere in uno stato di eccitazione dalla mattina fino a notte, mangiando pochissimo per la stretta allo stomaco? L'attesa della relazione e la relazione stessa. La relazione è fatta anche di contatto fisico: il Boss lo cerca continuamente andando a toccare e farsi toccare dai fans, parlandoci, portandoli sul palco, ballando con loro e facendoli cantare, raccogliendo le loro richieste di eseguire questo o quel pezzo.



E le canzoni? Non ne dimenticherò nemmeno una, ma fra tutte mi risuonano dentro Thunder Road, The River, Rosalita, Spirit in the Night, No Surrender, Because the Night e Jack of All Trades.
Le immagini? Tantissime, ma fra tutte, il volto felice del Boss che si rispecchia in quello dei 30.000 del Rocco.
Mandi Bruce! Torna presto!



sabato 9 giugno 2012

Saguaro non punge

Disegno di Davide Furnò
Dal primo numero di una nuova serie a fumetti di avventura ci si aspetta sempre troppo. La curiosità per Saguaro, la nuova serie Bonelli uscita nelle edicole a fine maggio era tanta. Dopo tante mini la casa editrice milanese presenta coraggiosamente una serie di durata indefinita in un periodo non certo propizio al fumetto.
Il luogo della storia è la riserva Navajo dell'Arizona, il tempo i primi anni Settanta, il protagonista Thorn Kitcheyan, chiamato Saguaro, navajo reduce della sporca guerra del Vietnam. Un duro alla Tex Willer, uno che ne ha viste tante, troppe nell'Estremo Oriente. Uno che non sopporta le ingiustizie e, fin dalla prima avventura, si mette nei guai per raddrizzare i torti. Un classico personaggio Bonelli, tutto d'un pezzo, almeno apparentemente. Ma forse è troppo presto per parlare di questo strano mix di western anni Settanta e crime story, combinazione di Cassidy e Tex Willer.
Bruno Enna, l'ideatore di Saguaro e autore delle storie, non ha rivelato tanto nella prima vicenda, disegnata da Fabio Valdambrini. Non si percepiscono ancora le caratteristiche degli anni in cui è ambientata la storia, a differenza di Cassidy (reduce anche lui) nel cui fumetto la cultura, la musica e le ambientazioni dei Seventies entravano in scena, fin da subito, come co-protagonisti. Saguaro potrebbe essere, invece, un reduce senza tempo di una delle innumerevoli guerre (sporche) che gli Stati Uniti hanno condotto negli ultimi decenni: dalla Corea al Vietnam, dall'Iraq primo e secondo atto all'Afghanistan, da Panama alla Somalia.
Ma è troppo presto per esprimere un giudizio: bisogna vedere come si dipaneranno le vicende di questo nuovo personaggio, taciturno e coriaceo come il cactus da cui prende il soprannome, di confine fra la cultura dei nativi americani e quella dei bianchi. E' proprio questo aspetto, il confine fra le due culture, la loro convivenza e gli attriti inevitabili che rende potenzialmente interessante questa nuova serie. Dipenderà tutto da come Enna lo svolgerà. Per il momento ha presentato molto bene alcuni personaggi di contorno: Howi, il vecchio uomo della medicina, Kay la giovane poliziotta mezzosangue, Art, l'avvocato pellerossa.
Saguaro quindi non punge... ma probabilmente è solo questione di tempo.

sabato 2 giugno 2012

Vibranti ma sobri

Sul numero odierno del quotidiano La Repubblica, Miguel Gotor, scrittore e storico che stimo, riflette sul significato della Festa della Repubblica in un interessante editoriale, intitolato "Perché il 2 giugno deve essere difeso". Inevitabilmente il pezzo prende le mosse dalle polemiche di questi giorni riguardo l'opportunità di svolgere la consueta parata militare, dato il terremoto che ha colpito di recente l'Emilia. Soldi buttati, risorse utili ad aiutare i terremotati anziché a sfilare a Roma. Questo il senso delle proteste di molti cittadini italiani. Napolitano ha risposto che la sfilata si sarebbe tenuta, ma sobriamente. Gotor da un lato minimizza il problema delle spese e dell'impiego di mezzi, dato che ormai la macchina dei preparativi era già stata avviata, con le relative spese, al momento della scossa di lunedì scorso e che oggi è la Protezione Civile, più che l'esercito, ad intervenire con competenza e organizzazione per aiutare i terremotati. Cita anche il caso del terremoto del Friuli, quando Forlani, allora ministro della Difesa, annullò la manifestazione del 2 giugno per non sviare l'importante supporto e lavoro che i soldati stavano compiendo nelle mie terre. Nel 1976 la Protezione Civile non esisteva (nacque proprio dall'esperienza del terremoto del Friuli) e l'esercito, presente in massa in queste terre di confine, era in effetti l'unico apparato statale in grado di intervenire con mezzi e uomini in situazione d'emergenza.
Fin qui mi trovo abbastanza d'accordo. Dissento in toto, invece, sul secondo punto per cui la parata militare va svolta, secondo Gotor. Lo storico riprende il pensiero di Napolitano, secondo cui
"è giusto onorare i militari proprio il 2 giugno, poiché in tante recenti missioni hanno sacrificato la loro vita o riportato gravi ferite per garantire a ognuno di noi una maggiore sicurezza interna e internazionale."
La retorica delle pseudo-missioni di pace vibra in queste parole. La retorica, che ci sbandiera attraverso i maggiori mezzi di comunicazione di massa e per voce di uomini delle istituzioni, che gli interventi dei nostri corpi militari all'estero sono svolti per il bene dei locali e, in ultima analisi, anche per il nostro. I veri motivi geopolitici ed economici sono di solito taciuti e tutti i soldati che muoiono, ahimè, in seguito a quelle operazioni di guerra (perché di questo si tratta) sono considerati martiri ed eroi. Non mi è mai andata giù questa falsa interpretazione e, per quanto mi dolga per la morte dei militari, così come per quella di qualsiasi altro essere umano, non ho mai accettato il festeggiamento della Festa della Repubblica attraverso una parata militare. Non si tratta di anti-militarismo, come scrive Gotor, ma del frutto di una considerazione molto semplice. La Repubblica Italiana è nata dopo la spaventosa esperienza della Seconda Guerra Mondiale, nella quale il fascismo e la monarchia dei Savoia ci avevano irresponsabilmente spinto. Ne siamo usciti fra le macerie ma con un orgoglio e uno spirito nuovi, nati dalla Resistenza che molti civili e militari italiani avevano condotto. L'Italia si è dotata di una Costituzione repubblicana, è cresciuta e si sviluppata negli anni. A questo hanno contribuito tutte le parti sociali, nessuna esclusa. L'apporto dei militari alla nascita della Repubblica e al suo sviluppo non è superiore a quello di ogni altra categoria, strutturata o meno. Basta leggersi il primo articolo della nostra Carta per capire quale sia il fondamento della nostra Repubblica: il lavoro. E basta leggersi l'undicesimo per ricordarsi che l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Tutto questo mi fa dire che ogni 2 giugno a Roma dovrebbero sfilare i lavoratori italiani e coloro che, purtroppo numerosi, aspirano ad esserlo. I militari non sarebbero altro che una delle tante categorie di lavoratori che ci sono nel nostro paese; lavoratori che si sacrificano e muoiono, nel silenzio dei media e delle istituzioni, molto più dei loro "colleghi" militari.

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